Cessione d’azienda illegittima e diritto alla retribuzione
Il lavoratore ha diritto alla retribuzione se la cessione d’azienda è illegittima per mancanza dei necessari presupposti.
In questo caso, infatti, i lavoratori restano alle dipendenze del datore di lavoro “cedente”. Se questi, senza valide ragioni, non consente loro di tornare a lavorare dovrà comunque retribuirli.
Lo afferma la Cassazione nell’ordinanza n. 3479/2023 che ha respinto il ricorso presentato dal datore di lavoro contro la decisione della Corte di Appello di Torino. La Corte lo aveva condannato a versare ai dipendenti le retribuzioni maturate dalla pronuncia con cui il Giudice del primo grado aveva dichiarato illegittima la cessione della sua azienda.
Presupposti della cessione d’azienda
La Corte ha confermato che, nel caso in questione, l’azienda non era stata trasferita alla società “cessionaria”. La società “cedente”, infatti, non aveva dimostrato in giudizio due circostanze che avrebbero reso operativo il trasferimento e cioè:
- che il “ramo” d’azienda, oggetto della cessione, fosse autonomo, cioè capace di produrre “con i propri mezzi” (cosiddetta, “autonomia funzionale”);
- l’autonomia funzionale esistesse già da prima del trasferimento (cosiddetta, “preesistenza”).
In mancanza della prova di questi requisiti, il trasferimento d’azienda non poteva avere l’effetto di trasferire anche i contratti di lavoro senza il consenso dei lavoratori. Infatti, solo se vi è una cessione d’azienda che rispetti i requisiti di legge, i lavoratori “passano” alle dipendenze del nuovo datore di lavoro anche se non danno il loro consenso. Questa è infatti la regola dell’articolo 2112 Codice civile che deroga alla regola contenuta nell’articolo 1406 del Codice Civile.
Retribuzione, non risarcimento se la cessione è illegittima
Confermata la mancata cessione d’azienda, la Cassazione ha respinto le contestazioni del datore di lavoro. Secondo il datore di lavoro, in caso di illegittima cessione d’azienda, il lavoratore avrebbe diritto ad essere solo risarcito, non retribuito per due diversi motivi:
- prima di tutto perché il lavoratore – durante il periodo di allontanamento – non ha reso la propria prestazione e, quindi, non ha diritto a ricevere la “contro-prestazione” che il contratto di lavoro pone a carico del datore di lavoro, cioè la retribuzione;
- in secondo luogo, perché, anche quando viene accertata l’illegittimità di un licenziamento e il giudice stabilisce che il lavoratore deve tornare a lavoro, il datore di lavoro deve solo risarcirlo per il tempo che va dalla pronuncia del giudice alla ripresa del lavoro.
La Cassazione respinge questa tesi e le ragioni a suo sostegno. Ciò perché ritiene applicabili, anche al caso in questione, le argomentazioni sviluppate in precedenti sue pronunce in materia di interposizione fittizia di manodopera, che si verifica quando il lavoratore, assunto da un soggetto, lavora in realtà alle dipendenze ed a beneficio di altro soggetto.
La Cassazione richiama in particolare la propria sentenza n. 7090/2018, emessa a sezioni unite, che fa propri i principi elaborati per risolvere il caso del datore di lavoro che rifiuti la prestazione lavorativa nonostante il giudice abbia riammesso il lavoratore in servizio.
Cassazione: la disciplina richiamata dal datore non tutela il lavoratore
La Cassazione ritiene che, anche nel caso di cessione d’azienda illegittima, la disciplina richiamata dal datore di lavoro “appare… inidonea a fornire al lavoratore una tutela effettiva”.
Questo per tre diverse e distinte ragioni:
- il rifiuto del datore di lavoro impedisce, in via definitiva, al lavoratore di svolgere il suo lavoro, dunque di eseguire la sua “prestazione”;
- in base alle regole di diritto comune, il lavoratore non avrebbe in questo caso diritto a ricevere dal datore di lavoro la “contro-prestazione” della retribuzione) bensì il solo risarcimento del danno;
- l’applicazione di queste regole in caso di rifiuto del datore di lavoro nonostante l’ordine giudiziario di riammettere in servizio il lavoratore farebbe subire al lavoratore la conseguenza sfavorevole (non essere retribuito ma solo risarcito) di un comportamento illegittimo del datore di lavoro perché non rispettoso dell’ordine giudiziario.
È quindi necessario andare oltre queste regole, nel rispetto dei principi della Costituzione sanciti dagli articoli 3, 36 e 41.
Il fatto che, in caso di licenziamento illegittimo, il lavoratore vada risarcito e non retribuito non ha alcuna rilevanza nell’ipotesi di illecita cessione d’azienda. Ciò per la particolarità della disciplina dei licenziamenti che deroga a quella che disciplina le obbligazioni in generale.
Cessione illegittima: le retribuzioni sono dovute anche in mancanza di prestazione lavorativa
In conclusione, la Corte ribadisce che, anche per l’ipotesi di cessione d’azienda illegittima, vale il seguente principio:
“il datore di lavoro, il quale nonostante la sentenza che accerta il vincolo giuridico, non ricostituisce i rapporti di lavoro, senza alcun giustificato motivo, dovrà sopportare il peso economico delle retribuzioni, pur senza ricevere la prestazione lavorativa corrispettiva, sebbene offerta dal lavoratore”.
Il tema della cessione di azienda dichiarata illegittima e delle sue conseguenze sulla retribuzione del lavoratore è già stato oggetto di attenzione da parte della Cassazione, come emerge da questo breve articolo: “Nullità del trasferimento d’azienda: il rapporto di lavoro prosegue con la Società cedente“