Corte di Cassazione, Sez. Lav.
Una dipendente sosteneva di aver subito mobbing durante una missione all’estero. In particolare, a suo dire, la direttrice le affidava continue correzioni di testi e la obbligava a lunghe attese dietro la porta dell’ufficio; le imponeva molte ore di straordinario; criticava il suo operato con espressioni quali «disgraziata», «idiota» e di fronte ai colleghi diceva che il suo lavoro «faceva schifo»; le assegnava il compito, meramente esecutivo, di provvedere all’apertura dell’ufficio e compiti dequalificanti; la presentava come «assistente» anziché come agente.
Dopo alterne fortune nel merito, la lite approdava in Cassazione. Il datore si difendeva, tra l’altro, sostenendo che la personalità della lavoratrice era caratterizzata da un disturbo di base di tipo «dipendente», che aveva contribuito a renderla strutturalmente fragile e più vulnerabile ad eventi stressanti; ciò che rappresentava quantomeno una concausa nella determinazione del danno. La Cassazione ha affermato che in caso di concorso atti umani e concause naturali, il responsabile dell’illecito risponde per l’intero; una comparazione del grado di incidenza di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli.
Il caso che la persona danneggiata sia, per la propria condizione soggettiva, più vulnerabile di altri non limita né la causa, né la colpa dell’agente e, dunque, nemmeno la liquidazione del danno.