Corte di Cassazione, Sez. Pen.
L’imprenditore che costringe i dipendenti ad accettare pagamenti inferiori a quelli denunziati in busta paga o a lavorare per un orario superiore a quanto previsto dal contratto (e, dunque, non retribuito) commette il reato di estorsione e di auto-riciclaggio. Per quest’ultimo reato è responsabile anche la società a norma del D.Lgs. n. 231/2001. Così ha deciso la Corte di Cassazione confermando la misura cautelare del sequestro finalizzato alla confisca a carico dei vertici di una S.r.l.
La Corte ha ricordato che l’art. 648-ter, Cod. pen. punisce le attività d’impiego, sostituzione e trasferimento di beni o altre utilità poste in essere dallo stesso autore del delitto presupposto che ostacolano la ricostruzione della matrice illegale. In altri termini, assumono rilevanza penale le condotte «che avvengano attraverso la reimmissione nel circuito economico-finanziario […] del denaro […] di provenienza illecita finalizzate a conseguire un concreto effetto dissimulatorio […] che differenzia la condotta di godimento personale, insuscettibile di sanzione, dall’occultamento del profitto illecito penalmente rilevante».
Nel caso concreto, la liquidità ottenuta attraverso l’attività di estorsione ai danni dei lavoratori, concretizzata tra l’altro nel mancato versamento delle quattordicesime e altro era poi servita a pagare provvigioni o altri benefit aziendali in nero a favore dei venditori della società.