Corte di Cassazione, VI Sez. Pen.
La titolare di un negozio di parrucchiera insultava continuamente una propria dipendente disprezzando il suo aspetto fisico, minacciandola di licenziamento se fosse rimasta incinta, imponendole lavori gravosi ed umilianti ed ingiuriandola anche con bestemmie alla presenza delle clienti e delle colleghe. La lavoratrice veniva infine licenziata dopo che un investigatore privato, assunto appositamente dalla datrice di lavoro, aveva accertato che lavorava presso un’altra parrucchiera. La dipendente ricorreva quindi in giudizio nei confronti della datrice chiedendo che fosse condannata per i maltrattamenti subiti.
La Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sulla vicenda, ha chiarito che la condotta vessatoria che integra il mobbing non è esclusa dalla legittimità delle iniziative disciplinari assunte nei confronti dei dipendenti mobbizzati. Infatti, da un lato, il licenziamento per giusta causa presuppone condotte del lavoratore che ledono irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro; dall’altro, il delitto di maltrattamenti, nella sua accezione di mobbing verticale, è un illecito penale che si consuma con la ripetuta prevaricazione ed umiliazione commessa dal datore di lavoro nei confronti del dipendente.
Alla luce di quanto sopra, la Suprema Corte ha ritenuto configurabile in capo alla datrice il reato di maltrattamenti e il risarcimento del danno, pur confermando il licenziamento.