È di oggi la nota dell’Unione Europea che annuncia il raggiungimento di un accordo politico provvisorio sul progetto di direttiva sui salari minimi adeguati nell’Ue. Cos’è e come funzionerebbe il salario minimo nel nostro paese?
È di oggi il comunicato dell’Unione Europea che annuncia il raggiungimento di un accordo politico provvisorio sul progetto di direttiva sui salari minimi adeguati nell’Ue.
Lo annuncia una nota della Presidenza del Consiglio europeo che aggiunge: “gli Stati membri sono tenuti a mettere in atto un quadro procedurale per fissare e aggiornare i salari minimi secondo una serie di criteri chiari”.
Cos’è e come funzionerebbe il salario minimo del quale si discute tra le forze politiche e sindacali
Il dibattito sul minimo compenso orario per i dipendenti, in questi giorni di crisi all’attenzione di media ed esperti, discende dalla considerazione che l’Italia è l’unico Paese d’Europa in cui i salari medi sono scesi inesorabilmente dal 1990 ad oggi.
Da un punto di vista politico e sociale, la misura avrebbe un impatto suscettibile di diverse valutazioni ma è interessante coglierne le principali ricadute.
Come viene determinato il salario minimo
In Italia la soglia minima salariale è fissata, di fatto, grazie ad una articolata e consolidata elaborazione della giurisprudenza, dal contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) ed è quindi frutto della negoziazione tra datori di lavoro e sindacati.
Il salario minimo fissato per legge avrebbe dunque, come primo effetto, quello di imbrigliare la libera contrattazione imponendo una paga base comune ed inderogabile per ciascun settore.
In Europa, le retribuzioni minime mensili lorde sono espresse in termini di standard di potere di acquisto (PPS); introdotte in 21 su 27 paesi dell’Unione Europea e variano dai 312 Euro della Bulgaria ai 2.142 Euro del Lussemburgo. Il salario minimo lordo è poi decurtato delle imposte sul reddito e dei contributi previdenziali posti a carico dei lavoratori.
I Paesi Europei che non hanno introdotto il salario minimo nazionale sono, oltre al nostro:
- Danimarca;
- Cipro;
- Austria;
- Finlandia;
- Svezia.
Nei Paesi in cui il salario minimo è stato introdotto, il suo ammontare viene calcolato sulla base di una serie di parametri:
- l’indice di produttività;
- il PIL del paese;
- l’indice dei prezzi al consumo;
- l’andamento generale dell’economia.
Periodicamente la somma viene sottoposta a rivalutazione in modo da mantenere inalterato il potere di acquisto dei salari.
Il lavoro “povero” e il salario minimo
L’Italia e la Grecia hanno i livelli più bassi di produttività, gli orari di lavoro più lunghi e i salari medi più bassi. Bisogna tener conto inoltre che la media non consente di apprezzare le differenze tra territori, dimensioni aziendali e settori non omogenei, come il pubblico e privato.
Se si considera il CLUP (Costo del lavoro per unità di prodotto), il salario ha una incidenza molto limitata mentre ne hanno moltissima altri fattori, tra cui la dimensione dell’impresa.
Nelle aziende sopra i 200 dipendenti l’Italia ha un CLUP pari a quello dei più ricchi länder tedeschi, nelle aziende sotto i 20 dipendenti, invece, l’indice è altissimo e spesso insostenibile per i datori di lavoro.
In Italia la produttività totale dei fattori (un indicatore che misura il grado di efficienza complessivo di un’economia), è in calo costante del 6,2% nell’ultimo decennio. Nello stesso lasso di tempo, il Pil per ora lavorata è cresciuto del 4,2%, mentre in Francia e Germania è aumentato di oltre il 21%.
Il salario minimo nella legislazione, la delega al Jobs Act e le norme europee
In Italia il dibattito sul salario minimo è proseguito a singhiozzo negli anni come testimonia anche l’iter approvativo dell’ultima riforma organica dello Statuto dei lavoratori.
Il salario minimo era stato previsto infatti nella legge delega con cui il Governo veniva incaricato di modificare lo statuto dei lavoratori, la Legge 183 del 10 dicembre 2014 ma è rimasto escluso dai decreti attuativi.
La delega prevedeva un sistema in cui la maggior parte dei compensi fosse stabilito dai contratti collettivi nazionali di settore vincolanti e il salario minimo legale fosse applicabile ai settori non coperti dai CCNL.
Nell’Unione Europea, la Commissione ha avviato una consultazione con le parti sociali già nel 2020 allo scopo di valutare una possibile azione sul fair minimum wage a favore di tutti coloro che hanno un contratto di lavoro o un rapporto di lavoro, cercando un equilibrio con le diverse legislazioni in vigore nei Paesi membri.
Il progetto, che lasciava ai singoli stati la scelta circa la via della legge o della contrattazione collettiva, incontra i limiti del Trattato che non prevede la competenza legislativa dell’Unione in materia retributiva, mentre consente al legislatore europeo di intervenire in materia di “condizioni di lavoro”.
Durante la sessione del Consiglio “Occupazione e politica sociale” di dicembre 2021, si è raggiunto un orientamento generale ed elaborato una Proposta di direttiva cornice per salari minimi adeguati nell’Unione europea di cui gli stati membri dovranno tener conto in caso di adozione della misura.
Per quanto riguarda l’Italia, alcuni studiosi evidenziano il fatto che un salario minimo unico nazionale incontrerebbe anzitutto il problema delle diverse condizioni economiche di aree del Paese. Una medesima cifra oraria, infatti, rischierebbe di essere comunque insufficiente a Milano e insostenibile in molte aree del meridione, generando ulteriori spinte verso l’irregolarità.
Sul piano regolamentare, infine, una riforma della retribuzione dovrebbe auspicabilmente premurarsi di imporre altresì una semplificazione della struttura della retribuzione, costituita spesso di un cumulo tra indennità di contingenza, paga base e, talora, di un groviglio di innumerevoli altre voci altrettanto variamente regolamentate. Tali bizantinismi, del tutto incompresi ed incomprensibili a chi non ne fa l’oggetto della propria professione, sono accolti con rassegnazione dagli operatori italiani, datori e lavoratori stessi; e con insofferente incredulità da parte degli imprenditori stranieri.
E, perché no, una tale riforma potrebbe essere anche l’occasione per ripensare alla necessità di mantenere una retribuzione strutturata su tredici o quattordici rate che, a ben guardare i valori su base annua, rappresentano un beneficio per il datore di lavoro non per il lavoratore. Dall’estero ci fanno notare che i mesi dell’anno sono solo dodici